Ricordando Pelè
La morte del re del football
Pelé, con la maglia della nazionale brasiliana, nel 1970
(AGR) Prossimo alla morte, Pelè ha reso pubblico un desiderio: “Che Dio mi valuti per quello che sono e non per come ho giocato”. Quanta saggezza, quanta profondità di pensiero espressa in quella frase!
Una persona è una persona e, che sia stata alla ribalta per tutta la sua esistenza facendo vedere lo stravedere, oppure che la sua vita sia stata inframmezzata da fulgori temporanei o che, infine, abbia condotto un’esistenza normale e anonima, quando viene a trovarsi al cospetto degli Enti Supremi il suo tutto viene messo sulla bilancia, soppesato e ridimensionato: ciò che siamo stati durante la nostra vita, il nostro comportamento e ciò che abbiamo fatto: tutto viene giudicato e sentenziato (benevolmente o meno, ce ne accorgeremo quando arriveremo alla destinazione finale). È questo, crediamo, il senso da dare alle parole di Pelè.
Da parte nostra, non seguiremo quell’onda. Più che l’elencare interminabili sequele di trofei vinti, citare statistiche e record che la stella brasiliana ha accumulato durante la sua lunghissima carriera, preferiamo soffermarci, piuttosto, su quanto, nel tempo, ci è stato possibile percepire, immaginare e vedere di Edson Arantes do Nascimento, universalmente conosciuto come Pelè.
Pelè non è più tra noi. Le varie generazioni che hanno avuto la fortuna e il privilegio di assistere a tante, meravigliose performance dell’asso brasiliano, dal momento in cui hanno appreso la notizia della sua morte sono sicuramente ancora lì a cercare di mettere ordine alle innumerevoli immagini di goal fantastici, finte e controfinte di Pelè, che, tutte insieme, confuse e confusamente, si affollano nelle loro menti sovrapponendosi, sovrastandosi, affastellandosi anche, magari per un solo attimo stagliandosi nitide e impossibili da cancellare.
Non c’è differenza tra l’emozione, il turbamento provato dai brasiliani o da sportivi e appassionati di football di altri paesi e continenti, perché il dolore per la scomparsa del ‘Rei’, oltre ad essere unanime è enorme, accomuna tutti coloro che gli hanno voluto bene da Rio de Janeiro a Sydney, da Roma a Città del Capo, da Tokyo a Madrid, da Londra a Lusaka e li rende perfettamente consapevoli che con la dipartita del fuoriclasse brasiliano se ne è andato via definitivamente un amico che ha portato con sé buona parte della loro giovinezza.
Ognuno, tra i miliardi di individui che l’hanno osannato quando giocava, ha sicuramente un ricordo di quel grande campione: un colpo di testa vincente che manda il pallone in rete, una finta ubriacante che spiazza l’intera difesa avversaria, un goal in rovesciata: chi non ha da raccontarne di queste meraviglie tirate fuori al ‘Maracanà’ o ai mondiali o in una partita amichevole?
Noi apparteniamo alla generazione che ha visto esplodere, ai mondiali di calcio del 1958, Svezia, quell’autentico dio del pallone chiamato Pelè, un ragazzino di diciotto anni che contribuì largamente alla conquista del primo titolo mondiale del Brasile, e che, soprattutto, si fece amare fin da subito: le finte stordenti cui era impossibile ‘mettere riparo’, il farsi trovare pronto a raccogliere il disimpegno di questo o quel compagno, il proporre lui stesso temi di gioco e andare a finalizzazioni di azioni di quel magico e purtroppo irripetibile Brasile del 1958, pieno di stelle che, nel prosieguo della loro vita calcistica, continuarono a brillare ininterrottamente.
Quel ragazzino che, come narrano le cronache del tempo, palleggiava con le arance e giocava con un pallone messo insieme con pezze e stracci, e che già agli esordi salì immediatamente alla ribalta del calcio brasiliano. Grazie soprattutto a lui, il Santos vinse tutto ciò che c’era da vincere.
Poi, arrivato alla nazionale, brillò subito di luce abbagliante, offuscando quanto, nel calcio, c’era stato prima: Pelè, di fatto, fu l’inizio di una nuova era calcistica, contribuì a portare il calcio negli angoli più remoti del pianeta, ne diffuse la sua bellezza estetica con spettacolari performance e, grazie anche all’avvento della televisione, i suoi numeri mirabolanti divennero patrimonio comune degli appassionati di calcio.
Inutile dire che tanti e tanti giocatori, anche affermati ad alti livelli, hanno cercato di imitare quei numeri da favola (senza peraltro riuscirci, sovente rimediando invece, sonori sberleffi da parte del pubblico), quei numeri che spingevano, appassionati e non, a fare file lunghissime per comprare il biglietto della partita o magari a correre al più vicino negozio di elettrodomestici a comprare un televisore, della qual cosa non avremmo dubbi.
A livello di club, Pelè rimase fedele alla squadra del Santos per tutta la sua carriera, rinunciando anche a faraonici ingaggi. Cambiò maglia quando, ormai agli sgoccioli della carriera, si trasferì ai Cosmos di New York: giusto una passerella per dare un saggio delle mirabilie di cui era capace anche a quella latitudine.
Ancora a carriera gloriosamente portata a termine, con la bacheca personale strapiena di trofei, non era raro vedere foto, scattate a Singapore, a Seul o Mombasa, di ragazzi e ragazzini, donne e uomini di ogni età indossare magliette con l’immagine di Pelè ben in vista sui loro petti: il segno che Pelè ha contribuito alla grandissima all’abbattimento di consolidate barriere razziali.
Per avere un’idea di come, a questo riguardo, le cose siano cambiate, e stiano cambiando, si pensi, per esempio, al grande Jesse Owens, l’afro-americano che conquistò quattro medaglie d’oro alle olimpiadi del 1936 (100 e 200 metri, staffetta 4x100, salto in lungo, cui Adolfo Hitler rifiutò di stringere la mano, oppure al pugile italiano Leone Jacovacci, di madre congolese, che si vide revocare il titolo di campione europeo dei pesi medi dal governo fascista perché di pelle nera, o, ancora, si pensi ai due atleti afro-americani, Smith e Carlos, che alle olimpiadi del 1968, in Messico, vinsero oro e bronzo nei 200 metri e alla cerimonia della premiazione indossarono guanti neri e durante l’esecuzione dell’inno USA abbassarono la testa e salutarono con il pugno chiuso in segno di protesta per i diritti civili negati agli afro-americani.
Tuttavia, i sacrifici fatti e le angherie sopportate da quei ragazzi, cioè i tanti vergognosi soprusi subìti durante la loro carriera sportiva, e in seguito anche nella vita privata, a causa di aberranti mentalità razziste che purtroppo, ancora oggi, non sono state del tutto annientate, non sono stati vani, ma sono serviti a riaffermare il principio che lo sport è pace, amicizia, fratellanza e rispetto reciproco al di là di qualsiasi credo politico o religioso.Pelè, con i suoi tanti, continui e prestigiosi successi, quei principi li ha sanciti definitivamente, riuscendo, addirittura, nel 1969, durante una tournee in Africa della sua squadra, il Santos, a fermare una guerra, seppure temporaneamente. La vicenda fu poi raccontata da Pelè sui suoi account ufficiali: “Ci è stato chiesto di giocare un’amichevole a Benin City, nel bel mezzo di una guerra civile, ma il Santos era così tanto amato che concordarono un cessate il fuoco il giorno della partita. Quel giorno passò alla storia come quello in cui ‘il Santos fermò la guerra’”.
Pelè, tre titoli mondiali: 1958, 1962, 1970, conquistati insieme agli ‘extraterrestri’ che facevano parte di quelle nazionali brasiliane: i vari Didì, Vavà, Djalma Santos, Tostao, Rivelino, Francisco Marinho, Piazza, Clodoaldo e… la lista è lunga e interminabile.
Nella sequenza, manca la conquista del mondiale del 1966, vinto dall’Inghilterra di Bobby Charlton. A quel mondiale, il Brasile si presentò in gran spolvero, ma non andò oltre la prima fase a gironi: sebbene fosse partito bene battendo la Bulgaria per 2-0, nel prosieguo rimediò due sonore sconfitte con Ungheria e Portogallo, entrambe per 3-1. Con le credenziali che presentava, c’era da restare allibiti di fronte alla sua eliminazione, inaspettata quanto sorprendente. Noi ipotizziamo che il mancato passaggio del Brasile alla fase successiva fu dovuto, in parte, anche alle tantissime botte che Pelè e compagni presero dai vari Farkas, Bene, Albert e Tichy, pilastri dell’Ungheria, nella partita contro i magiari, a quel punto del torneo vero e proprio match da dentro o fuori, essendo la seconda gara, tant’è che ‘O’ rei’ dovette uscire a risultato in bilico e nella partita successiva non fu disponibile, mentre diversi suoi compagni entrarono in campo già mezzo acciaccati.
Botte e acciacchi fermarono il Brasile, ma non abbiamo dubbi che, a direzione arbitrale seria dell’inglese Ken Dagnall, che lasciò correre parecchio, di fatto penalizzando oltremodo i brasiliani, la nazionale carioca avrebbe trionfato ancora.
A quei tempi, nelle partite tra ragazzi, non era raro sentire frasi come: ‘Ma chi sei, Pelè?’ ‘Questi sembrano il Brasile!’ e simili: espressioni tra il serio e l’ironico che sottolineavano – la parte ‘seria’ - una bella giocata oppure – la parte ironica - un clamoroso svarione o, ancora, l’inconsistenza della squadra avversaria. Frasi che, comunque, sono rimaste per un bel pezzo nel gergo calcistico di giovani e adulti.
Non pochi ‘scrivani’ di cose sportive, calcistiche in particolare, probabilmente affetti dalla mania di codificare, etichettare, riordinare, numerare, stilare graduatorie ‘di tutti i tempi’, le più assurde, si sono cimentati nel risibile e quanto mai ridicolo tentativo di buttare giù bizzarre ‘classifiche di merito’, magari proponendo ai propri lettori on e off line, ascoltatori e telespettatori, quesiti del tipo: ‘secondo voi, chi era più forte: Pelè o Maradona, Di Stefano o Cruyff?’. Roba da terza elementare, in sostanza idiozie di mentecatti che, purtroppo, ancora oggi trovano spazio sui vari media, che tuttavia mettevano e mettono a dura prova non solo la pazienza del lettore, ma anche la credibilità della testata. ‘Quesiti’ probabilmente proposti per vendere qualche copia in più del giornale o attirare inserzionisti sulla testata on line, che vanno catalogati come falsi, del tutto campati in aria e inattendibili, perché tra quei nomi appena citati non può esserci classifica: tanto Pelè che Maradona o Di Stefano o Iniesta sono tutti fenomeni allo stesso livello che a suo tempo hanno riempito con le loro magie non poche delle tantissime serate di coppe o di campionato. Sono confronti improponibili: Pelè ‘era’ il Brasile, Di Stefano ‘era’ il Real Madrid e la Spagna, Cruyff ‘era l’Ajax e l’Olanda, Maradona ‘era’ il Napoli e l’Argentina, Paolo Rossi è entrato nella storia del calcio come ‘L’uomo che ha segnato tre goal al Brasile tutti nella stessa partita’ (Mondiali 1982).
Cosa ha fatto grandi questi astri del calcio, tutti completamente diversi l’uno dall’altro (ci mancherebbe altro che fossero stati uguali…) per lo stile di gioco, per la posizione tenuta in campo, per il modo di gestire il pallone? In primis, sicuramente l’immensa tecnica di base, requisito indispensabile di cui erano provvisti in abbondanza, che permetteva loro, in campo, di esprimersi con numeri di alta classe, ma anche, in buona parte, dall’assoluta conoscenza dello ‘strumento di lavoro’, il pallone, ‘attrezzo’ totalmente assoggettato ai loro voleri, grazie alla eccezionale padronanza che ne avevano, che non poche volte permetteva loro di uscire vittoriosamente da marcature asfissianti o che magari riuscivano a calamitare verso di loro o verso un compagno con una sbalorditiva facilità, E da ultimo, ma non meno importante, la sapienza tattica, l’intelligenza calcistica con la quale riuscivano a guidare la squadra, sia che partecipassero direttamente all’azione, da interpreti principali o da comprimari, sia che avviassero o ne suggerissero lo sviluppo con preziosismi e numeri imprevedibili.
Ecco, Pelè è stato il primo a prendere posto in questo ristrettissimo pantheon: certo, arriveranno altri bravissimi giocatori, ma, al momento, a parte qualche eccezione del recente passato (Totti, Zidane, Iniesta e qualche altro), tra quelli in circolazione soltanto Messi sembra già essere entrato nell’esclusivissimo club degli assi del pallone.